Per molti porti italiani il futuro parla cinese

Gli investimenti promessi da Pechino possono fare crescere Genova e Trieste. I due scali saranno coinvolti nella nuova Via della Seta, sfidando giganti come Rotterdam e Amburgo. Un volano per le autorità di sistema dopo un piatto 2016

di Paolo Pittaluga

La possibilità di nuova crescita dei porti italiani passa dalla Cina? Stando a quanto affermato dal presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, la risposta è “sì”. Il premier, al termine del suo viaggio a Pechino, ha definito «importante il fatto che il presidente cinese abbia confermato la loro intenzione di inserire i porti italiani tra i porti sui quali investire, come terminali della Via della Seta». «In particolare – ha proseguito – stiamo parlando del potenziamento dei porti di Trieste e Genova, non in alternativa al Pireo. Sono mestieri diversi che possono essere sviluppati in modo diverso e parallelo. E senza dimenticare il ruolo tutto speciale e simbolico di Venezia».

Nelle considerazioni di Gentiloni ci sono diverse parole chiave: Via della Seta, Pireo, Trieste, Venezia e Genova. Via della Seta è quel percorso che in poco meno di due anni è passato da una sorta di strada (ferrata) visionaria a pezzi di binario percorsi già dai primi treni sull’asse che dalla Cina porta ai terminal del nord Europa. Con un tempo (14 giorni) più che dimezzato rispetto a quello via nave. Certo, per ora quei convogli vanno ancora a Nord, in porti come Rotterdam e Amburgo che continuano nella loro ascesa. Ma domani le cose potrebbero cambiare e l’Italia non può essere tagliata fuori diventando un hub utile per il naviglio in arrivo dal Canale di Suez e (grazie anche ai nuovi tunnel alpini – Terzo valico, Torino-Lione e Brennero) andarsi a collegare alla Via della Seta. Non in concorrenza al Pireo (seconda parola chiave), il porto greco acquistato l’anno scorso dai cinesi della Cosco per oltre 368 milioni – e che ha già movimentato oltre 3 milioni di teu (container) -. E in un contesto in cui il presidente cinese, Xi Jinping, mette 78 miliardi di dollari (il cosiddetto progetto One belt one road ) il Bel Paese non può restare tagliato fuori. Perché in caso di “non adesione” il sistema portuale italiano sarebbe praticamente ridotto alla marginalità del servizio interno. Con quali conseguenze sul settore – 160mila aziende per per un valore stimato di 220milioni di euro – facili da immaginare.

Ecco qua, allora, la altre parole chiave: Trieste, Venezia e Genova. Partendo dalla città di San Marco è doveroso ricordare che si lavora freneticamente per arrivare a realizzare una piattaforma off-shore che costerà 2,2 miliardi con una capacità di movimentazione di 3 milioni di teu l’anno. In attesa che “quell’isola per container” si vada a creare, l’oggi è dato dall’andamento della portualità del Bel Paese che ha visto un 2016 di difficile lettura in quanto è stato l’anno dei cambiamenti delle Autorithy voluti dalla riforma Delrio: 12 mesi nei quali le vecchie presidenze delle autorità portuali non hanno mosso, o quasi, euro in attesa delle novità e dove non tutte le poltrone sono “occupate” e c’è ancora un caso di ribellione, la Sicilia. Ciò premesso la movimentazione, a grandi linee, è stata in linea con le attese, almeno a leggere i dati di Assoporti, dove si evince che vanno bene gli scali dell’arco Tirrenico (in particolare Genova e Spezia, perde container invece Livorno) e quelli dell’arco Adriatico (cresce Trieste tra l’altro leader nella sostenibilità grazie alla movimentazione via ferrovia). Spostandosi verso Sud nota di merito per Civitavecchia anche grazie al traffico Ro-Ro (import-export dei veicoli Fca), male Gioia Tauro condizionato dagli scioperi contro il taglio del personale e male Taranto dove il megaporto container è quasi una landa desolata. Quindi movimentazione in linea con le attese ma, non è un mistero, che deve crescere. Allora l’avvento cinese non può che leggersi positivamente anche se non mancheranno le voci contrarie. Anzi già ci sono state. L’ultima solo pochi giorni fa, quando uno storico terminalista genovese, Luigi Negri, ha parlato di overcapacity (eccesso di capacità) dei porti liguri individuando nella costruenda piattaforma di Savona-Vado un’opera inutile, osservando che «il terminal non avrà successo». «Ai cinesi – aggiungeva – gliel’avevo anche spiegato. Basta pensare ai costi superiori rispetto a Genova». Il riferimento ai cinesi è spiegato dal fatto che il nuovo terminal savonese oggi è partecipato al 49% da Cosco Shipping Ports e Qingdao Ports, mentre la maggioranza è ancora nelle mani del gruppo Maersk. Come a dire, non tutti sono convinti dell’avvento di Pechino.

Avvenire – 17.05.2017

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