Da Genova a Taranto, da Trieste a Goia Tauro i piani di sviluppo delle nuove infrastrutture portano a una situazione di sovracapacità. Rimodulare i progetti di spesa. Più coordinamento con le nuove authority
di Massimo Minella
Mai così forti, mai così a rischio. L’ultimo paradosso dei porti italiani è un imminente record di traffici che può dare il sorriso nell’immediato, ma può spaventare in prospettiva. Gli scali della Penisola, infatti, non hanno mai smesso di progettare il loro sviluppo, cercando di dotarsi di nuove infrastrutture e di spazi più grandi per movimentare la merce. Di per sé un obiettivo virtuoso. Ma la crisi ha azzerato le previsioni di crescita.
Così, mentre fra cinque anni i porti offriranno al mercato spazi raddoppiati rispetto a quelli attuali, la domanda resterà sostanzialmente invariata. Questo nella migliore delle ipotesi, perché il crac della sudcoreana Hanjin, settima flotta al mondo nel trasporto di container, travolta da cinque miliardi di euro di debiti, ha svelato come anche lo shipping non sia affatto esente dagli sconquassi della crisi globale. Uno scenario spaventoso che attraversa tutta quanta la Penisola, da Nord a Sud, da Genova a Gioia Tauro, passando per Taranto, e che trova proprio il suo paradigma nel capoluogo ligure.
La recente legge di riforma voluta dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio ha infatti indicato nella nuova autorità di sistema che unisce Genova a Savona il “porto d’ Italia”, per usare le parole del titolare del dicastero, lo scalo guida nella sfida da lanciare ai colossi del Nord Europa.
Ma i piani di crescita del nuovo gigante della portualità italiana rischiano di cozzare clamorosamente contro una realtà che resterà sostanzialmente stabile nel medio periodo. A Genova, infatti, si sta completando la nuova Calata Bettolo, per ospitare i container della Maersk, ma si progetta anche di riempire altri spazi portuali nell’area del Multipurpose, mentre il porto di Pra’-Voltri utilizzerà gru ancora più grandi per servire le navi giramondo. Nella vicina Savona, intanto, si sta lavorando alla realizzazione della nuova piattaforma Maersk di Vado Ligure.
Totale, un’ offerta di spazi che nell’arco di un quinquennio porterà la nuova authority di Genova- Savona a offrire al mercato spazi per oltre cinque milioni di container. Quest’anno Genova farà il suo record con 2,3 milioni di teu (l’ unità di misura pari un pezzo da venti piedi), ma pare davvero difficile riuscire a saturare tutti quegli spazi.
Non bisogna poi dimenticare che crescono nell’offerta altri porti dell’Alto Tirreno, La Spezia e Livorno, mentre se ci sposta al Sud si continua a discutere su come riempire gli spazi vuoti di Taranto e rilanciare il porto di Gioia Tauro. Il rischio che i porti finiscano per implodere su se stessi, dopo aver divorato miliardi di euro pubblici, è quanto mai concreto.
«Per questo andremo a definite un piano regolatore portuale nazionale che impedirà le logiche territoriali del passato – spiega Luigi Merlo, consulente del ministero dei Trasporti – ci saranno linee comuni e una visione condivisa, più attenzione all’evoluzione del mercato mondiale. Il pubblico deve costruire le condizioni per far crescere il traffico e le imprese, ma non sostituirsi al privato ». Questo per il futuro, però.
Ma che cosa si rischia se effettivamente non si riuscirà a saturare tutti questi vuoti? «Rischiamo un effetto devastante – spiega Giuseppe Danesi, ceo del terminal Vte di Pra’-Voltri e presidente dei terminalisti genovesi – continuiamo a costruire mentre per i prossimi cinque anni non cresceremo di una virgola, né l’Italia, né l’Europa. Ci sarà una sovracapacità molto pericolosa, una guerra sui prezzi, un gioco al ribasso che avrà conseguenze pesantissime sull’organizzazione del lavoro».
Dopo la crisi che ha investito lo shipping, ora il faro si punta sui porti. Come peraltro aveva previsto Sergio Bologna, docente universitario e uno dei massimi esperti di problemi legati alla portualità e alla logistica, che ha appena dato alle stampe “Il crac che viene dal mare – volume secondo”. «Il primo – spiega Bologna si concentrava sullo shipping e rifletteva su situazioni evidenti che più d’ uno non voleva vedere: la speculazione finanziaria e la corsa a costruire navi nonostante non ce ne fosse bisogno hanno finito per creare una bolla che sta avendo gravissime conseguenze nello shipping. Ma la bolla non si è fermata, si è allargata ad altri settori. E ora rischia di esplodere con effetti ancor più gravi».
È possibile invertire la tendenza? Per Bologna l’unico modo è quello di allargare i propri bacini di traffico arrivando fino ai mercati esteri. Come succede a Trieste, che pur favorito da una posizione geografica particolare, ha comunque l’ottanta per cento dei suoi traffici intermodali proprio con i Paesi esteri. «Senza adeguate infrastrutture, però, non si arriva al di là di un mercato regionale conclude Bologna – l’ unica salvezza della Liguria è il terzo valico ferroviario, ma bisogna far presto, altrimenti arriveranno direttamente dal Nord Europa a servire la Pianura Padana». La fine dei lavori del Terzo Valico che da Genova buca gli Appennini e arriva nel Basso Piemonte, anello iniziale di una linea che sale fino a Rotterdam, è fissata per il 2021. Fra tre gli anni verrà inaugurata la Galleria del Monte Ceneri che consentirà al Nord Europa, tramite la Svizzera di arrivare direttamente a Milano. È una corsa contro il tempo e non è affatto scontato che a vincerla sia l’ Italia.
Repubblica/Affari&Finanza – 31.10.2016
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